Signori. Entro solo ora in questo dibattito, perché, per correttezza e consuetudine professionale, mi sono preso del tempo per ascoltare tutti e per riflettere. Vi chiedo ora la disponibilità ad ascoltarmi, anche se per molti di voi io sono e rimarrò uno sconosciuto. Voi avete la facoltà di ignorare questo messaggio, di impedire la diffusione, ma sono convinto che chi avrà la pazienza di ascoltare questo mio breve commento potrà vedere le cose anche da un punto di vista diverso da quello in cui sono state presentate.
Vengo al punto.
Il 9 luglio 2014 una insegnante milanese, con una lettera aperta intitolata «Scuola, piovono diagnosi di DSA sui nostri figli. Ma sono loro a essere tutti dislessici, o sono gli insegnanti che non sanno insegnare?» scaglia il suo «J’Accuse…!».
L’accusa è rivolta alla LEGGE 170 DEL 2010 responsabile – a detta della docente di cui cito testualmente le parole – “di una Riforma strisciante della Didattica, studiata astutamente, e supportata da un accurato piano di marketing”. Parole forti vengono scagliate contro i Disturbi Specifici dell’Apprendimento e a chi è direttamente coinvolto nella loro “cura” – uso il termine in senso lato – inteso come interessamento solerte e premuroso, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività. Parole forti, ripeto: come dislessico – io lo sono – mi hanno indignato. Ma come insegnante – sono anche questo – non posso negare che mi abbiano messo a disagio e preoccupato: ne ho riportato l’impressione precisa che quelle parole siano dirette ad allontanare i docenti dalla loro vera missione, che è, incontestabilmente, quella di guidare ciascun allievo a sviluppare al massimo le sue potenzialità e a renderlo autonomo.
Se non si vuole impiegare il termine “missione”, si può parlare di finalità, di obiettivi: ma la sostanza non cambia.
Ora, proprio in considerazione di questa “sostanza”, la Legge 170 non trasforma la nostra Scuola – come affermato dalla docente in questione – in “Cliniche Psichiatriche” o in “Ospedali”: se mai, alla Scuola offre la possibilità di elevarsi e di diventare un luogo di giustizia; quella giustizia che – come ha detto don Milani – “non è fare parti uguali tra disuguali, ma dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno”.
Perché allora non dare più tempo a chi è più lento a leggere o a scrivere? Perché dovrebbe essere considerata ingiustizia concedere a un dislessico più tempo o (esageriamo) dotarlo di un computer, mentre è pacifico che sia cosa giusta dare ad un miope gli occhiali o ad un cieco la sintesi vocale? A che punto della storia abbiamo deciso di ignorare tutte le conquiste fatte nel campo dell’istruzione e dell’educazione negli ultimi cento anni e di limitarci a sposare il vecchio motto gentiliano “chi sa, sa insegnare”? Ma mi domando, e lo domando anche a voi: siamo veramente sicuri che conoscere a fondo una disciplina sia sufficiente per poterla efficacemente insegnare? Siamo veramente sicuri che la didattica e la psicologia non possano essere d’aiuto all’insegnante? Non ci è forse mai capitato nella vita di apprendere meglio uno stesso concetto quando ci viene spiegato da un compagno di studi, piuttosto che dal “professorone” di turno? Siamo veramente sicuri che l’insegnante non abbia bisogno di aggiornarsi? Ci siamo mai chiesti quanti e quali siano gli insegnanti che vanno ai corsi di aggiornamento? È forse un caso che in tutti i corsi di formazione che ho frequentato o tenuto siano sempre stati frequentati da maestri di scuola primaria? Come mai, invece, il numero dei docenti delle scuole secondarie che vi accedono è sempre bassissimo?
La verità è che per svolgere al meglio il ruolo di insegnante non basta soltanto la padronanza delle abilità strumentali e delle conoscenze disciplinari: essa, ne sono fermamente convinto, è un presupposto indispensabile. Ma, se si possiede soltanto quella conoscenza, l’insegnamento si riduce a spiegazioni da impartire, compiti per casa da assegnare, voti e programma da svolgere…
No e poi no: qualcosa di più ci vuole, e deve esserci… e questo qualcosa in più è rappresentato dalla passione e dalla didattica. Chi non ha passione e non si interessa di didattica finisce per dare ragione a quel vecchio adagio che recita: «Chi non sa fare niente insegna».
Nella sua lettera, la professoressa milanese esalta «la scuola di una volta» che ha creato grandi uomini e grandi donne. Ma mi chiedo, non sono forse stati, proprio quei grandi – uomini e donne – usciti da quel tipo di scuola, a consegnarci questo mondo così come ora appare? Non ci hanno forse lasciato un’eredita, anche solo in termini morali, peggiore rispetto a quella dei loro padri che a scuola ci erano andati molto poco? “Però loro sapevano leggere e scrivere bene” obietta la professoressa milanese. Ma siamo veramente sicuri che sapevano tutti leggere e scrivere bene? Non è stato forse un maestro di nome Manzi, in aperto contrasto con «la scuola di una volta», ad alfabetizzare tantissimi italiani negli anni ’60? E ancora: come trattava i disabili o le persone in grosse difficoltà quella tanto rimpianta «scuola di una volta» ? «Scuole Speciali» lontani dagli occhi lontani dal cuore! «La scuola di una volta» non accolse nessuno dei grossi contributi dati da Maria Montessori che alfabetizzò sia bambini normali che bambini disabili.
E se invece la scuola di cui parlo, quella rimpianta dalla docente milanese, non fosse quella a cui ho fatto riferimento, allora mi domando: a quale scuola si riferiva? di quale scuola stiamo parlando? Della scuola che separava maschi e femmine? Della scuola che segregava i disabili? Della scuola dove c’era il figlio del Dottore e il figlio dell’operaio? Della scuola che puniva corporalmente chi sbagliava? Della scuola che ha introdotto il sei politico?
Quale che sia “l’età aurea” di quella scuola di una volta (20, 30, 40 anni fa?), c’è da domandarsi: è stata “veramente” migliore rispetto a quella attuale? Siamo veramente sicuri che proprio ‘quella’ scuola non abbia stroncato carriere e infranto sogni?
Al di là dei luoghi comuni, dei pregiudizi e di generalizzazioni, che peccano sempre di superficialità, la verità incontestabile è che la scuola è fatta dagli insegnanti. Non solo le leggi o le riforme a creare una buona scuola. E allora perché abbiamo paura della legge 170? Perché siamo terrorizzati dai Disturbi Specifici di Apprendimento?
Un insegnante motivato si informa e va alla ricerca dei metodi più efficaci per insegnare ai propri alunni. Collabora con la famiglia. Non teme il lavoro in più. Non guarda l’orologio o il portafogli.
La diagnosi, soprattutto, non è la fine, ma soltanto l’inizio. Ci descrive uno studente con caratteristiche diverse e ci invita ad insegnare in modo diverso. Non si tratta di regalare la promozione o di giustificare una difficoltà scolastica, ma semplicemente di identificare una causa. Io sono dislessico, disgrafico, disortografico e discalculico, eppure mi sono laureato, sono diventato insegnante di scuola primaria e ho scritto dei libri. La mia storia e la mia esperienza dimostrano proprio questo: “La dislessia non è una porta murata, ma una porta chiusa a doppia mandata. Per aprirla bisogna trovare la chiave giusta”. Questa chiave sono le strategie che consentono di superare le difficoltà strumentali e di tagliare ogni traguardo. Tutte le agenzie sono chiamate a lavorare insieme – Scuola, Famiglia, Sanità – ognuna con le proprie competenze e responsabilità. Non da ultimo, anche il ragazzo dovrà fare la sua parte.
E’ la mentalità che deve cambiare!
Smettiamola dunque con inutili nostalgie e costruiamo insieme una scuola che possa ora più che mai sviluppare le potenzialità di ciascuno, sfruttando quello che i Disturbi Specifici di Apprendimento ci insegnano, ovvero di andare alla ricerca di nuovi strumenti. Forse sono solo un illuso, un sognatore, un idealista e forse le mie resteranno solo parole e nulla cambierà… ma io sono convinto che si debba cambiare e voglio credere che si possa… perché so di non essere l’unico ad amare il mio lavoro … perché voglio con tutto me stesso creare una scuola migliore! un mondo migliore!
Filippo Barbera
Pubblicato per la prima volta in TEMPI